Non so perché, ma la parola “sbarco” per me è legata a “Normandia”. Fatto sta che io sono arrivata in Islanda poco meno di una settimana fa e non ho affatto messo piede in Francia. Al momento sono a Nord, nello Skagafjördur.
Ero alle Isole Faroe e pensavo che quell’ambiente facesse capire il significato della parola “fiordo”, l’inevitabile compresenza di terra e acqua, quell’interdipendenza che oscilla con le maree. Poi mi sono ricordata di essere su delle isole, ho ripensato ai fiordi islandesi visti nel precedente viaggio estivo e ho capito che avevo frainteso: il fiordo è un’intrusione di acqua nella terra o un inchino della terra di fronte all’Oceano; ciascuno ha le sue peculiarità che lo rendono un mondo a sé stante; è un’entità geografica (ma anche ecologica, economica, amministrativa) rispetto alla quale non so trovare corrispettivi italiani. Il fiordo è il fiordo e noi, patriotticamente parlando, non ne abbiamo nessuno. Amen.
Cosa cerchi qui?
Ho vagato per 400 km tra nuvole basse, quasi alla cieca. Ho percorso la punta Nord- orientale d’Islanda con una foschia surreale, spaventapasseri agghindati come fosse carnevale e uccelli che ti accarezzano il finestrino con le ali. Ho gustato a piccoli sorsi il piacere di vagare da sola per chilometri e chilometri. Qualche abitazione sparsa qua e là, alcune abbandonate. Le uniche auto incontrate sono state quelle di altri turisti, riconoscibili dal fatto che periodicamente si fermano a bordo strada per scattare qualche fotografia.
Sono venuta qui in cerca di risposte, in cerca del segreto per unire tutti i pezzi del puzzle del presente e la risposta sembra essere il vuoto, l’essere umano che si fa da parte e lascia spazio a tutto il resto.
Chiunque ci abbia fatto arrivare qui è pregato di girare l’interruttore dall’altro lato.
Ma non sono così estremista. O forse non sempre. Quindi non mi accontento della prima impressione e provo a cambiare contesto, ad avvicinarmi a quella parte della civiltà che preferisce concentrarsi in determinate aree, note ai più con il nome di centri abitati.
Case variegate in forme e colori, quel “caratteristico” che si stiracchia a voler comprendere un “particolare” e anche un po’ di “carino”; a Húsavík c’è un cantiere che sembra un villaggio a sé, pronto per la realizzazione di un nuovo sito di produzione di silicio per il quale le fonti ufficiali sono impegnate a declamare la compatibilità ambientale e la rilevanza economica per l’Islanda; a Seyðisfjörður, invece, c’è una proprietà che pare essere di uno sfasciacarrozze, vista la collezione di autoveicoli sparsa lungo la costa. Mi torna in mente il momento dello sbarco quando un’addetta mi ha chiesto per quanto mi sarei fermata in Islanda, se avessi attrezzature per la pesca con me, mi ha attaccato un adesivo sul parabrezza come fosse cosa sua e mi ha lasciato un opuscolo con le regole per la guida. Organizzati per certi versi, economicamente vincolati per altri e del tutto casuali per altri ancora.
Velkomin til Íslands
Tutto questo non toglie nulla al fascino di questo luogo. Tutto questo è pura impressione personale, nessun giudizio. Sono dell’idea che, se non ti piace ciò che vedi quando vaghi come ospite in un luogo, tu abbia essenzialmente due opportunità: o tornartene da dove sei venuto cercando di portare con te il meglio che hai vissuto o integrarti e, solo poi, darti da fare per provare a cambiare quanto non ritieni giusto.
Oppure fai come quell’artista canadese che è in Islanda per la quinta volta, si fermerà per qualche mese e propone un dibattito pubblico relativamente all’impatto del turismo sulla cultura dell’Isola. Ho provato a contattarla ed è stata gentilissima, mi ha fornito qualche dettaglio della serata e mi ha detto che vedrà di farmi avere il report del dibattito. Parafrasando la sua risposta: “stanno iniziando a capire adesso la portata di quello che sta accadendo e credo che chiunque non sia rimasto indifferente al fascino di questo posto non possa non chiedersi come e quanto le cose cambieranno e auspicare una gestione consapevole del fenomeno”. Della serie: sappiamo che è inutile piangere sul latte versato, allora evitiamo di versarlo.
Parliamo di solitudine?
Appena scesa dalla nave a Seydisfjordur mi dirigo all’ufficio informazioni turistiche per acquistare la carta dei campeggi: il ragazzo legge il mio nome come un italiano perché è un italiano.
Decido di andare a visitare il Museo dell’esplorazione a Húsavík: dico che non ho corone islandesi con me e vorrei pagare con la carta di credito per un complesso tutto italico di “magari non avete il pos” e lei mi dice che secondo lei nessun islandese gira con i contati; “non sei di qui?”, “no, sono italiana”.
Lago Mývatn, mi fermo a una stazione di servizio per fare rifornimento. Infilo la carta nella colonnina e un tizio alle spalle dice all’amico “vediamo cosa fa questa, così capiamo come fare”, allora gli chiedo se gli serve qualcosa. Deglutisce e poi dice di no.
Le targhe delle auto a noleggio potrebbero ingannare, ma poi la tua lingua la riconosci. Ovunque.
Dicono che il Nord sia meno frequentato: parto.
Il fascino dell’impossibile
Ci sono almeno tre persone che mi vengono in mente mentre scrivo, che credo potrebbero arricciare il naso o avere altro da dire, dettagli o non dettagli da aggiungere. Ma non ho modo di parlare con loro, per lo meno non adesso.
C’è poi una persona con la quale sarebbe interessante parlare, ma non so nemmeno se riusciremmo a capirci senza un interprete: “Caro Martín Caparrós, sono in Islanda e leggo te, argentino, che parli di fame e fai capire come va il mondo. Potresti cortesemente lasciare un poco di spazio al senso di quanto sto cercando di fare? Con sincera ammirazione e grande riconoscenza, Laura A.”
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