Uno dei motivi per cui ho iniziato a puntare a Nord in inverno è stata la convinzione secondo la quale là non c’è nessuno, a parte il freddo, il ghiaccio, la neve e una quantità incalcolabile di pericoli. Sono partita per la Groenlandia orientale a fine febbraio sapendo che tra freddo, neve, ghiaccio e pericoli, solo il ghiaccio (equilibrio mai certo), i pericoli (ché gli orsi bianchi non sono come quelli del cartone animato Balto) e il destino avrebbero potuto uccidermi e io ero disposta a correre il rischio. Ma che là non ci sia nessuno non è del tutto vero: là ci sono poche persone che tendono a stare tutte insieme, ché l’unione fa la forza e l’effetto stalla è una legge fisica al pari dell’effetto Doppler (quello dell’esempio del suono dell’ambulanza, per intenderci).
Arrivi in una struttura turistica e riuscire a mantenere uno spazio vitale libero da altri esseri umani non è per niente scontato: se ti siedi a leggere in una stanza vuota ci sono ottime probabilità che il secondo che arriva ti si sieda accanto; se guardi fuori dalla finestra il fiordo gelato ci sarà qualcuno che dovrà commentare luce, colori e la sua sensazione di pace; se ti metti a scrivere qualcuno vorrà sapere che cosa stai scrivendo; non esiste l’ipotesi di sedersi a tavola e stare in silenzio. Anche le persone del posto si siedono vicino a te per parlare della qualunque. “Non vi capita mai di dovervi riposare dalla gente?“, mi chiedo io (e non solo), “e non c’entra l’essere asociali o, peggio, misantropi, c’entra solo il livello personale di saturazione“.
C’è chi parte da solo per giorni, fucile al seguito, sfruttando i bivacchi utilizzati dai cacciatori. Sono alpinisti esperti, guide che hanno qualche giorno di libertà tra un gruppo e l’altro o giovani che, a casa, fanno parte delle associazioni di volontari del soccorso alpino. Qui esplorano e si allenano. Uno potrebbe prepararsi e cercare così la vera solitudine, mettendo chilometri tra sé e il resto dell’umanità, puntando all’isolamento. Da Bergamo a Tasiilaq, da Tasiilaq a un bivacco innominato. Ho pensato che la fuga in avanti potrebbe non avere mai fine e così, un giorno, si potrebbe partire a nuoto per la Luna. Eppure la solitudine non è tanto questione di isolamento, questo è soprattutto un trucco per cascarle tra le braccia.
Sono uscita a pescare in un giorno di sole splendente e freddo tagliente. Eravamo in tre, ciascuno a fianco del proprio buco nel ghiaccio che riveste la parte terminale del fiordo di Tasiilaq; un anziano del posto era seduto sulla sua slitta, il giovane che mi aveva accompagnata per mostrarmi l’arte della pesca tradizionale si occupava della sua lenza. Io ricordo la sensazione del freddo che si diffondeva, il peso della lenza nella mano, le voci dei due uomini che parlavano nella loro lingua. Sospensione. Come quando fai il morto al mare, il corpo leggero e rilassato e il mondo che si riduce al blu cielo. Solo meno orizzontale e con meno gradi. Soli in tre.
Nella giornata più grigia dell’intero mese a Tasiilaq ho fatto un’escursione con i cani da slitta. Eravamo in sei, tre per slitta e ciascuna slitta trainata da dodici cani. Il fruscio della slitta sulla neve e l’andatura regolare dei cani rilassano come il dondolio dell’amaca nella brezza di montagna. Non è tutto rose e fiori, perché quando sei controvento riesci a stimare da quanto tempo non lavano i cani e loro i bisogni li fanno senza soste tecniche. Parlare diventa innaturale perché distrae dal rilassamento, allontana dal galleggiamento nel bianco, dalla sensazione di essere veliero in bottiglia. Le uniche voci sono quelle delle guide che incitano i cani. Soli con dodici gambe e quarantotto zampe.
La solitudine non è tanto questione di isolamento. E forse si misura in multipli di tre.
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