Se è nel rapporto con gli altri che impariamo a essere umani, esiste però uno spazio in cui gli altri non possono né devono entrare. Ed è uno spazio che merita attenzione al pari di quello dedicato alla socialità. Imparare ad abitarlo può richiedere pratica, ma pensare che sia per forza scomodo e spiacevole e pericoloso è fuorviante.
Le tre solitudini
L’italiano ha una parola sola per dire tre cose molto diverse: il sentirsi soli, con o senza altre persone intorno, lo stare soli, perché si è scelto di passare del tempo da soli, e l’essere isolati dagli altri, per mancanza di rapporti sociali o per condizioni specifiche (vivere in luoghi isolati, risentire di condizioni che limitano le possibilità di interazione con gli altri).
Per altre lingue non è così, però. Il caso sempre citato è quello dell’inglese che distingue i tre significati con altrettante espressioni: il sentirsi soli è loneliness, lo stare soli è to be alone e l’isolamento è (social) isolation.
E non è questione da linguisti, ma di possibilità di fare chiarezza in merito all’argomento. Così, per esempio, quando si leggono notizie o libri che provengono da culture anglofone e nella traduzione si usa solo l’espressione solitudine, il rischio è quello di fare di tutta l’erba un fascio e di alimentare solo sconforto e paura.
Il fatto è questo:
tutti coloro che parlano della solitudine come di un pericolo o di una condizione spiacevole parlano del sentirsi soli, della sensazione soggettiva di non avere legami significativi rispetto alle proprie esigenze o aspettative.
Questo disagio però non si risolve demonizzando la solitudine, trattandola come una malattia da curare, ma mettendo in luce le ragioni che portano a sentirsi soli.
Ipotizzare di non sapere che farsene della propria solitudine, dello spazio individuale che ciascuno porta con sé e che deve imparare a conoscere, abitare e arredare, offre più soluzioni. Così come l’idea che ci siano sofferenze individuali che ostacolano l’utilizzo dell’abilità di stare soli.
Le isolitudini
Se si inizia ad approfondire il tema della solitudine, uno dei primi nomi che si incontrano è quello di John T. Cacioppo. Il suo libro “Solitudine – L’essere umano e il bisogno dell’altro” è il tipico caso in cui la parola solitudine è stata piazzata in copertina con troppa leggerezza. Nella versione originale il titolo inizia con loneliness, e ti mette da subito in una prospettiva differente: quella nelle intenzioni dell’autore, che ha investito buona parte della sua vita di ricercatore a dimostrare gli effetti fisiologici di rapporti sociali insufficienti rispetto all’esigenza percepita da ciascuno.
Quello che mi sta a cuore è che Cacioppo partiva dall’idea che sentirsi soli è un’esperienza soggettiva che risente in primo luogo della diversa inclinazione e pratica nei rapporti umani: tempi, modi e quantità delle relazioni percepite come necessarie cambiano da individuo a individuo e nell’arco della vita di una stessa persona. Quindi, chiedersi di quale solitudine si stia parlando, significa fare i conti con l’isola di ciascuno, con tutte le isolitudini.
Siamo soli mica stelle
Tutto questo per dire che la solitudine è (anche) una condizione esistenziale che può essere accettata o subita, una condizione che ci accomuna al pari del bisogno di socialità e che, come la socialità, ha un suo valore, un suo senso individuale. Questo valore non rischia solo di essere trascurato e di restare nascosto, ma di trasformarsi in un’ombra mostruosa e dolorosa se non viene illuminato dalla pratica e dall’esperienza.
I rimedi al sentirsi soli non si esauriscono nell’incontro con l’altro.
Imparare a stare soli
Non si tratta di compiere scelte estreme, ma di iniziare ad apprezzare la propria solitudine, farci amicizia. In modo da potervi ricorrere, anche solo nei momenti di necessità (tipo per fare i conti con l’isolamento sociale imposto dal Covid).
Apprezzarla significa riconoscerla ed esplorarla: la corsa del mattino, la lettura serale, la concentrazione dello studio o del lavoro, il tragitto in macchina, il tempo della creatività, il riposo notturno, l’attesa in coda al supermercato, un lungo viaggio; il momento della scelta, l’elaborazione di un lutto.
I burberi lupi solitari
Apprezzare la propria solitudine è anche un modo per dare importanza alle relazioni con gli altri, al contrario di quanto induce a pensare la comune associazione solitario – asociale. Del resto, di luogo comune si tratta, e svela quanto lontano possa spingersi il pregiudizio sulla solitudine, la paura di restare soli.
Saper stare da soli ci rende liberi nell’incontro con l’altro: di scegliere tra compagnia e solitudine, ma anche liberi da aspettative e pretese e, azzarderei, più in contatto con l’umanità di ciascuno.
Scrivi un commento