Il prossimo 31 gennaio, in Italia, lo stato di emergenza sanitaria compirà un anno. Se, come molti bambini, iniziasse a parlare, avrebbe un’intera comunità di storie da raccontarci. Potrebbe funzionare allo stesso modo per qualunque altra serie di 365 giorni, ma c’è un’eccezionalità che fa spiccare quelli appena trascorsi e fa sorgere interrogativi: quanti racconti sarebbero accomunati dalla pandemia e quanti, invece, stupirebbero non facendone parola? Quanto spazio riserverebbero alle perdite e quanto alle scoperte? Quale indole ci rivelerebbero? Rabbiosa, incerta, sconfitta, risentita, sfiduciata o desiderosa di cambiamento?
Storie isolate
Immagino frammenti, vite di isolani o microcomunità. Un senso di costrizione e di vincolo. Paura e rabbia seguite da ripetuti tentativi di evasione. Noia, frustrazione. E il sollievo di alcuni, per il dono inatteso di tempo e di spazio.
Un anno di esistenze compresse da regole che, eliminando ogni differenza per salvare il maggior numero possibile di vite, non si sono curate né delle nostre ragioni né delle forme delle nostre giornate. L’impressione di essere un* fra tanti, volto sfocato nell’istantanea dell’umanità. E non è per niente piacevole.
Un anno di insofferenza per i limiti. Quando la tutela della salute degli altri è il confine della scelta individuale, ci si può stupire ricordando che è questo confine a fare dell’anarchia la libertà, ma ci si può anche sentire in trappola a causa degli altri. E non è per niente facile da accettare.
La spinta verso l’esterno
All’aumentare della pressione è aumentato il bisogno, fisico, di reazione, di riconnessione. Un tentativo di cambiamento che prova a fare del problema la soluzione. Un tentativo testardo di dimostrare che non è vero, che ci siamo, esistiamo, decidiamo. Un ripensamento che non pensa ma agisce, che non prova a ragionare e sentire ma si impone.
Un anno di paura di essere e restare irrimediabilmente sol*, trascorso gridando che non è vero. Un anno di lotta all’idea che siamo impotenti, a volte o molto spesso, anche se non lo vogliamo accettare.
Sentirsi soli o fare compagnia a sé stessi
Di quei pochi che hanno ricevuto sollievo che ne è stato? Dove sono? Di che cosa si stanno occupando?
Di sé, credo. Tra alti e bassi, tra incertezze. Contano le paure, le pettinano per vedere dietro alla chioma folta che volto nascondano, per capire da dove arrivano e che cosa vogliono dire loro con tanta foga. Si chiedono come vorrebbero che fosse il futuro, senza dare per scontato che il termine di paragone sia il prima e nient’altro. Si domandano che cosa bisogna imparare a fare, se non si stia dimenticando qualcosa o qualcuno mentre si spinge per tornare a essere liberi al punto di non sapere nemmeno di esserlo. Aspettano, parlano da soli, tengono compagnia a sé stessi.
E vissero tutti…
Quale sarebbe la morale dei 365 giorni di storie? Questa è, forse, l’unica domanda che continua a mantenere senso. Il finale deve essere scritto da qualcuno e ciascuno, se si guarda intorno, può vedere che ha tutta un’isola per cui voler scrivere il proprio.
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