Fotografia del villaggio inuit di Tiniteqilaq, sulla costa orientale della Groenlandia

Si muovono con la famigliarità di chi è a casa propria: non si guardano in giro, fanno. All’aeroporto di Kulusuk, due hangar a fianco della pista in terra battuta, ad agosto i visitatori appena sbarcati indossano le giacche a vento. Una bambina inuit con le scarpe rosa, invece, va dritta al bar e compra un litro di granita. Rosa. Il resto della famiglia mangia hot dog.

Carnagione scura, olivastra, tratti orientaleggianti e corporatura in genere piuttosto minuta (ma ci sono sempre le eccezioni). Le loro parole hanno suoni gutturali che ti fanno pensare alla notte dei tempi, mentre sugli abiti hanno scritta la modernità.

A Tasiilaq alcuni inuit ti sorridono per strada, altri ti salutano: “gudaa”, il loro ciao, oppure un più internazionale “hi”. Altri ti guardano con indifferenza. Tutti sanno se è la prima volta che sei lì.

Gli inuit sono un ragazzo di 25 anni che fa il poliziotto. 96 kg di giocatore di football con il sorriso di un bambino cresciuto. Dice di essere tra i pochissimi del suo villaggio a non avere ancora messo su famiglia. Ma non è preoccupato, al momento se la gode e si sposta dove il lavoro glielo richiede. E’ arrivato a Tasiilaq il 1° di luglio e ripartirà per Nuuk il 12 agosto. Potrebbe fare due mesi di ferie, ma tutto dipenderà dalla decisione del suo capo. Vorrebbe andare sul continente: ha conosciuto una turista francese e gli piacerebbe rivederla. Per ora vive con turni di 30 ore in una squadra di 3 persone, una delle quali è malata, e reperibilità quando è a riposo. “Fuori non si vedono i problemi” dice, “ma nelle case c’è molta violenza. Oppure ci sono casi di suicidio. Ce ne sono talmente tanti che li consideriamo casi minori“.  Ti mostra orgoglioso una foto in cui è ritratto mentre tiene tra le mani la testa dell’orso bianco che è stato ucciso qualche giorno prima nei dintorni del villaggio.

Gli inuit sono Abel che lavora alla Casa Rossa. L’ho conosciuto quando mi ha preparato il kayak. Mi ha fatto cenno con la mano di seguirlo, come se dovesse condividere un segreto, invece mi ha indicato il punto che dovevo raggiungere a piedi. Parla qualche parola di inglese, ma non è grazie a quello che ci si capisce. E’ il linguaggio dei segni, anche quelli che non sapevi di conoscere, ad aprire la strada. Ha 35 anni che non sai dove tenga nascosti, tre bambini e una storia personale aggrovigliata. Per me è stato l’incarnazione della tristezza malinconica. Cercare di conoscerlo è come partecipare a una corsa a ostacoli: devi superare la difficoltà della lingua, le differenze culturali, mostrare curiosità senza risultare invadente, sperare che la fretta dettata dalla tua breve permanenza sia anche per lui una giustificazione per domande dirette. So che gli piace la musica perché canta o fischietta e, se può, la lascia uscire libera dal suo cellulare. Si diverte a fare dispetti innocenti, ma questo ho il sospetto sia un tratto che lo accomuna al suo popolo più che distinguerlo.

Gli inuit sono Viggo e Peter, gli skipper esperti della Casa Rossa. Due mondi silenziosi.

Viggo indossa sempre gli occhiali da sole, anche quando li toglie: la carnagione del suo volto, già scura, è abbronzata, ma non intorno agli occhi. I suoi occhi sono due fessure tonde e piccole. Sono bruni e sono altre mani: il suo sguardo ti pesa addosso quando è diretto verso di te e, se non è schermato dagli occhiali, ti colpisce come uno spillo; vede qualcosa che tu non vedi e te lo fa sentire; vede quello che tu vuoi nascondere e ti fa sentire nudo. Quando smetti di nasconderti e lo guardi, lui sorride. Ti insegna l’incontro e l’accoglienza. Le sue mani sono grandi, nodose e ruvide, ma sempre gentili. Il suo tatto ha tatto. Parlare con lui è giocare alla simmetria:

Mi spiace.

Per cosa?

Perché non riesco a capire tutto quello che mi dici.”

Non importa. Va bene così.” e posa la sua mano sul tuo volto.

Peter indossa sempre gli occhiali, quelli da vista. Lui si infila in una tuta imbottita, indossa i guanti pesanti e fiuta le balene. Quando le vede all’orizzonte le indica con il dito e dice “balena” in groenlandese; tu gli chiedi “whale?” e lui ripete la stessa parola. La sua espressione si irrigidisce verso la fine della giornata, dopo ore in piedi ad assecondare il movimento delle onde, vigile alla presenza degli iceberg e con il vento sempre in faccia. Ma è l’effetto fisiologico del freddo che paralizza, il suo spirito, invece, è imperturbabile: quando un’onda gli bagna un guanto, abbassa lo sguardo alle mani per un istante, poi aspetta la prima sosta per toglierselo e strizzarlo. Non si lamenta, ironizza: “vogliono passare la notte ad aspettare le balene?“, chiede via radio a Viggo dopo 10 minuti di vano galleggiamento al largo del fiordo di Sermilik, quando il sole è già tramontato da un pezzo. In barca con lui, il momento del rientro a Tasiilaq è sancito da un’altra parola in groenlandese; tu gli chiedi “time to go back?” e lui fa un cenno con la testa. Potresti imparare qualche parola nella sua lingua, se solo riuscissi a cogliere tutti i suoni attraverso il brusio del vento.

Gli inuit sono Axel che lavora alla Casa Rossa e indossa sempre una giacca azzurra. Ha imparato il danese grazie alla relazione con una ragazza danese, appunto. Parla anche un ottimo inglese e per questo lavora un po’ come interprete. E’ un fanatico dell’elettronica, così si è assemblato da solo il suo pc, ed è anche un grande fotografo. Mi ha consigliato di fidanzarmi con un danese per imparare in fretta la lingua e riuscire così a capire meglio la vita di Tasiilaq. Gli ho proposto di fare uno scambio di casa, lui in Italia e io a Tasiilaq, ma mi ha detto che non sopravviverebbe: “mi scioglierei come un iceberg“. Ha gli occhi di un gatto, screziati di verde e marrone.

Gli inuit sono Bianco, che lavora alla Casa Rossa e guida anche l’ambulanza per l’ospedale di Tasiilaq. Gli ho chiesto come funziona la questione dei nomi, il fatto che Axel diventi Axelì, Robert Robertì, Abel Abidì, in segno di famigliarità. “E Bianco?“, gli ho chiesto. Lui ha sorriso prima di dirmi “Bianco“. E’ stato l’ultimo legame con Tasiilaq: mi ha accompagnata all’eliporto e mi ha salutata con un abbraccio.

Gli inuit sono anche il sagrestano di Tasiilaq, di cui non ho capito il nome, che mi ha vista seduta da sola a un banco della nuova chiesa e mi ha offerto una tazza di caffè fumante; sono le ragazze che lavorano alla Casa Rossa, che a te sorridono imbarazzate, mentre a Robert lanciano oggetti dalla cucina o bussano alla porta per poi nascondersi; sono i bambini che saltano sui tappeti elastici o pescano sotto la pioggia; sono i tre bambini di Tiniteqilaq che ti guardano come fossi un alieno, ma si mettono a giocare con te a pallone e ti salutano con un “bye”.

Gli inuit sono occhi scuri in tutte le sfumature della terra.

Gli inuit sono

della Groenlandia

la terra.